L’insegnamento dell’educazione civica nella scuola media avrebbe bisogno di un ripensamento complessivo di ben altra portata, che sia promotore di una concreta realizzazione delle indicazioni programmatiche. Tale riflessione diviene ancor più urgente alla luce del grande sviluppo delle cosiddette “educazioni” che spesso sono state recepite nei diversi pei delle scuole (ultima arrivata, e per giunta obbligatoria, l’educazione stradale, guarda caso “collegata” proprio all’educazione civica). Quest’ultima, infatti, non solo riceve dalle altre educazioni nuove spinte e occasioni per reclamare un posto di riguardo nelle programmazioni didattiche, ma rischia anche di veder sfumare i propri tratti salienti a causa di una certa sovrapposizione con altre educazioni più vicine alle sue finalità e ai suoi obiettivi, come quella alla pace, interculturale, alla legalità ecc.
Il riferimento ai programmi
Il punto di partenza di una doverosa chiarificazione dovrebbe essere, ancora una volta (e non sembri un riferimento ormai sorpassato e banale), un’attenta lettura dei programmi che, come tante vicende italiane, richiano di essere messi definitivamente in soffitta senza essere stati concretamente applicati e, talvolta, neppure compresi (ogni riferimento alla nostra Costituzione è decisamente voluto). L’educazione civica è, nei programmi, «intesa come finalità essenziale dell’azione formativa della scuola», «esige […] la convergenza educativa […] di ogni aspetto della vita scolastica» e deve tendere «a far acquisire comportamenti civilmente e socialmente responsabili». Èquesto forse l’aspetto più peculiare della didattica delle educazioni, quello che attiene alla modificazione dei comportamenti e degli atteggiamenti, anche se si presenta come quello più a rischio di delusioni e frustrazioni da parte dell’insegnante, che non può illudersi (come spesso è accaduto nel passato) di favorire il cambiamento nei propri allievi solo attraverso lo studio, l’acquisizione di nozioni, il possesso e la specificazione di nuovi concetti. La finalità qui sembra essere in modo particolare “il modo di essere nel mondo” e di fornire il proprio contributo cosciente al suo miglioramento, piuttosto che “il modo di pensare la realtà” (anche se è difficile immaginare questi due aspetti come realmente separati).
L’approccio didattico dovrebbe, dunque, favorire in questa ottica un attivo coinvolgimento dei ragazzi, un loro diretto impegno che preveda un’assunzione diretta di responsabilità, un muoversi nella realtà attraverso esperienze personali, che divengano il punto di partenza concreto della riflessione e dell’acquisizione dei concetti. Non deve sorprendere che già i programmi evidenzino questa necessità, quando affermano che la struttura educativa «attua il suo impegno di educazione civica […] attraverso un concreto esercizio di vita democratica nella scuola» e che dovranno essere «per quanto possibile, sperimentate le forme di partecipazione alla vita della scuola».
Naturalmente, l’esperire in concreto la vita democratica nei suoi vari aspetti non può essere visto come alternativa all’apprendimento di nozioni e norme della convivenza civile, ma come una faccia della stessa medaglia. In quest’ottica, “imparare per conoscere” e “imparare per essere” divengono un tutt’uno in cui è impossibile distinguere un prima e un dopo cronologico e/o logico.
Educazione civica e “abilità sociali”
Ma torniamo a quello che a me sembra l’aspetto più interessante della didattica dell’educazione civica, l’aspetto che riguarda l’apprendimento di comportamenti. Non credo sia azzardato affermare che questi ultimi potrebbero essere equiparati a quelle che ormai più di uno studioso chiama, con un termine lato ma sufficientemente pregnante, “abilità sociali”.
Se si parla di un buon inserimento nella società, di rispetto degli altri e delle norme ma anche di possibilità di comprensione della genesi delle contrapposizioni e dei conflitti che tendenzialmente gli uomini risolvono con la forza, mi sembra che, alla base di tutto ciò possa esserci un’abilità di rilevazione e di gestione corretta delle divergenze e dei contrasti tra persone. Di questo, in effetti, si tratta, infine: di conoscere/riconoscere dapprima le proprie esigenze, i propri bisogni, le idee e i valori e di mettersi, in seguito, “nei panni degli altri”, di relativizzarsi, di rispettare-dopo averla riconosciuta-la “diversità”, di esprimere solidarietà e spirito di collaborazione (o, se del caso, di difendere strenuamente le proprie posizioni) per crescere insieme e superare stereotipi e pregiudizi. In una parola, “fare i conti per l’altro” e utilizzare le diverse visioni della realtà-i conflitti-come momento di arricchimento reciproco, come “motore” piuttosto che come inciampo o motivo di rallentamento.
Risulta essere insegnabile tutto ciò? Risulta essere insegnabile come momento autonomo dalle discipline, non solo come effetto collaterale, come ricaduta, di altri apprendimenti?
Le opinioni a riguardo sono controverse, le opposizioni a un insegnamento “puro” delle abilità sociali molto decise. Eppure, le proposte di un curricolo che abbia come finalità primaria la modifica di atteggiamenti e comportamenti diventano sempre più frequenti, articolate e basate sulla verifica sperimentale.
La simulazione e il role play
Metodologia fondamentale appare essere quella basata su momenti di simulazione e di role-play, seguiti da dibattiti e discussioni sulle esperienze, attività la cui forza per favorire cambiamenti e messa in crisi di vissuti e di credenze consolidati è ancor oggi molto sottovalutata.
Le simulazioni di realtà non devono, per altro, sostituire l’esperienza diretta di soluzioni di problemi e di partecipazione democratica, come abbiamo già avuto modo di vedere nei programmi. Occorre forse ricordare le tappe che dovrebbero essere percorse perchè l’esperienza vissuta entri a far parte del patrimonio utilizzabile da parte di chi apprende. Il “fare esperienza” deve essere seguito dalla riflessione sull’esperienza fatta per facilitarne l’interiorizzazione; dalla memorizzazione di quanto provato, in modo che sia disponibile per l’uso quando necessario; dall’uso delle strategie apprese in situazioni analoghe e, quindi, dall’adeguamento dell’esperienza ai nuovi contesti che, in parte, richiameranno alla mente quelli già incontrati ma, in parte, si differenzieranno da loro sicuramente in qualche cosa. Resta da dire che già molte scuole hanno affrontato con grande attenzione e preparazione il discorso delle “educazioni”, producendo, oltre ad approfondimenti e riflessioni, anche strumenti programmatici di grande interesse.
La scuola media sperimentale ex art. 3 di Milano “Rinascita” ha messo a punto, ad esempio, uno strumento di lavoro che si articola in concetti, contenuti e temi, abilità e operazioni cognitive, modalità di svolgimento di lavoro, discipline coinvolte che sembra essere di qualche utilità per una programmazione soddisfacente.
Un insegnamento interdisciplinare
Un’ultima sottolineatura mi appare doverosa e riguarda il momento imprescindibile di interdisciplinarità nell’affrontare una tematica come quella dell’educazione civica, soprattutto nell’ottica che sinora ho cercato di chiarire. Non credo sia una sorpresa per nessuno affermare che oggi il “delegato” a un progetto così articolato rischia, ancora una volta, di essere l’insegnante di lettere che, oltre a tutto, nel tempo pieno ricopre ben il cinquanta per cento del tempo di apprendimento dei ragazzi.
La battaglia per l’insegnamento dell’educazione civica-occorre ribadirlo-si gioca nella quotidianità all’interno dei Consigli di classe e proprio qui è spesso perduta, a causa delle chiusure nelle specifiche discipline e nei singoli programmi, che stentano ancora a ricercare, ognuno con i propri mezzi e competenze, l’unitarietà del sapere.